Ci sono giorni in cui fare questo lavoro fa proprio schifo.
Arrivi a casa e, complici il premestruo, il tempo novembrino, il freddo, l’umidità e quant’altro ti senti realmente di non poter far niente per invertire la macabra tendenza nella quale vanno inesorabilmente scivolando il Sistema Sanitario Nazionale, e l’umanità in generale.
C’è da dire anche che siamo una generazione un po’ disgraziata, noi giovani Anestesisti Rianimatori del 2023. E non perché “abbiamo fatto il Covid”, cosa della quale da vecchi ci fregeremo, come i nostri nonni che ci guardavano come se non avessimo diritto di lamentarci perché, in fondo, loro avevano fatto la Guerra. Quei giorni sono molto lontani ormai, è vero che la Guerra a nostro modo l’abbiamo fatta, ma anche se non l’avessimo fatta saremmo comunque un bel po’ disgraziati.
L’epoca in cui ogni paziente può accedere alle più complesse informazioni via web, talvolta senza alcuno strumento per interpretarle correttamente, è di per sé un elemento estremamente difficile da gestire. La parallela crescita della sfiducia nei confronti della figura del Medico va a braccetto coi danni che fa Dottor Google, e si sommano ai venti anni di berlusconismo mediatico e a un sistema scolastico che i Governi hanno fatto di tutto per depauperare.
E allora parliamone, di comunicazione. Ma non di Kalamazoo, teoria dell’empatia e paraverbale. Give me a break. Ditemi più spesso qualcosa che posso usare. Ditemi come fare a non sbagliare.
Fare i corsi di comunicazione è una cosa molto figa perché ti fa migliorare e ti aiuta a pensare, a vederti da fuori, applichi uno schema che conosci a menadito, che è quello di studiare la teoria e applicarla, e va a finire che migliori.
Ma a me non basta e a volte mi sento tanto arrabbiata.
E’ scorretto, disonesto, radical-chic affermare che il paziente medio ha una bassa scolarizzazione, o quando è istruito manca di strumenti intellettivi, emotivi o umani per comprendere concetti come quello della morte, del fine vita, della disabilità, della sofferenza, o più semplicemente di come si svolge un intervento di colecistectomia laparoscopica?
Oppure siamo noi che non sappiamo parlare, o non abbiamo saputo parlare coi nostri pazienti, per generazioni? Noi che non abbiamo pazienza, noi che non abbiamo tempo, perché la comunicazione è tempo di cura ma, zio, noi quel tempo non ce l’abbiamo?
Molti pazienti trovano normale uscire dalle visite senza aver capito generalmente un’acca di quello che il medico ha voluto comunicare loro, i familiari inveiscono, gli anestesisti parafrasano, i chirurghi sbìsturano e i docenti di comunicazione e non-technical skills troppo spesso parlano a sé stessi. E tu hai voglia di impiegare il tuo -poco- tempo libero a imparare a parafrasare, parlare, eliminare le peculiarità personologiche che mal si adattano al rapporto con i curati, tornare a casa e chiederti se potevi essere più paziente, rassicurante, sorridente, accogliente, o più cruda e non lasciare speranze, o farti offendere in sala d’attesa perché il paziente a cui non davi nessuna chance è guarito.
Hai voglia a sbagliare, e risbagliare, e rifarlo mille volte, inciampare negli avverbi di modo, nei tic nervosi, nelle spalle strette o nei vernacolismi per smorzare la tensione, contare dentro di te per misurare e accogliere il silenzio di una prognosi infausta, il macigno dell’incertezza da depositare di fronte a figli, madri, sorelle, compagni, amiche.
Ci sono giorni in cui fare questo lavoro fa veramente schifo perché i tuoi strumenti migliori arrancano, ogni scelta sembra sbagliata, ogni parola misurata male, il rapporto coi colleghi estenuante e il momento di stimbrare un’enorme liberazione ma solo temporanea.
Allora parlatemene di comunicazione, ma me ne parli chi ha i miei problemi, le mie ansie, i miei dubbi sempiterni, chi si fa le domande su come incernierare contenuto e contenitore per agire in ambiente di verità ma fare tutto bene.
Fare tutto bene, che nel mio lavoro non significa sempre far guarire qualcuno o vedere sorrisi, ringraziamenti, soddisfazioni.
Fare tutto bene e andare a casa lasciando fuori dalla porta quel macigno di incertezza, o invitarlo a bere un thè in fondo alla stanza, senza però rompermi le gonadi perché anche io a volte vorrei chiudere tutte queste schede aperte, silenziare questo rumore, dimenticare volti, nomi e facce, non scorrere spasmodicamente le cartelle, essere una di quelle persone che le cose le possono cercare su Google come faccio coi video di hair care, che mi risultano comunque complicatissimi.
A volte fare questo lavoro fa proprio schifo, ma mannaggiammé posso ancora dire che non farei davvero altro.