Non-technical b*tch

Ci sono giorni in cui fare questo lavoro fa proprio schifo.

Arrivi a casa e, complici il premestruo, il tempo novembrino, il freddo, l’umidità e quant’altro ti senti realmente di non poter far niente per invertire la macabra tendenza nella quale vanno inesorabilmente scivolando il Sistema Sanitario Nazionale, e l’umanità in generale.
C’è da dire anche che siamo una generazione un po’ disgraziata, noi giovani Anestesisti Rianimatori del 2023. E non perché “abbiamo fatto il Covid”, cosa della quale da vecchi ci fregeremo, come i nostri nonni che ci guardavano come se non avessimo diritto di lamentarci perché, in fondo, loro avevano fatto la Guerra. Quei giorni sono molto lontani ormai, è vero che la Guerra a nostro modo l’abbiamo fatta, ma anche se non l’avessimo fatta saremmo comunque un bel po’ disgraziati.

L’epoca in cui ogni paziente può accedere alle più complesse informazioni via web, talvolta senza alcuno strumento per interpretarle correttamente, è di per sé un elemento estremamente difficile da gestire. La parallela crescita della sfiducia nei confronti della figura del Medico va a braccetto coi danni che fa Dottor Google, e si sommano ai venti anni di berlusconismo mediatico e a un sistema scolastico che i Governi hanno fatto di tutto per depauperare.

E allora parliamone, di comunicazione. Ma non di Kalamazoo, teoria dell’empatia e paraverbale. Give me a break. Ditemi più spesso qualcosa che posso usare. Ditemi come fare a non sbagliare.
Fare i corsi di comunicazione è una cosa molto figa perché ti fa migliorare e ti aiuta a pensare, a vederti da fuori, applichi uno schema che conosci a menadito, che è quello di studiare la teoria e applicarla, e va a finire che migliori.
Ma a me non basta e a volte mi sento tanto arrabbiata.

E’ scorretto, disonesto, radical-chic affermare che il paziente medio ha una bassa scolarizzazione, o quando è istruito manca di strumenti intellettivi, emotivi o umani per comprendere concetti come quello della morte, del fine vita, della disabilità, della sofferenza, o più semplicemente di come si svolge un intervento di colecistectomia laparoscopica?

Oppure siamo noi che non sappiamo parlare, o non abbiamo saputo parlare coi nostri pazienti, per generazioni? Noi che non abbiamo pazienza, noi che non abbiamo tempo, perché la comunicazione è tempo di cura ma, zio, noi quel tempo non ce l’abbiamo?
Molti pazienti trovano normale uscire dalle visite senza aver capito generalmente un’acca di quello che il medico ha voluto comunicare loro, i familiari inveiscono, gli anestesisti parafrasano, i chirurghi sbìsturano e i docenti di comunicazione e non-technical skills troppo spesso parlano a sé stessi. E tu hai voglia di impiegare il tuo -poco- tempo libero a imparare a parafrasare, parlare, eliminare le peculiarità personologiche che mal si adattano al rapporto con i curati, tornare a casa e chiederti se potevi essere più paziente, rassicurante, sorridente, accogliente, o più cruda e non lasciare speranze, o farti offendere in sala d’attesa perché il paziente a cui non davi nessuna chance è guarito.

Hai voglia a sbagliare, e risbagliare, e rifarlo mille volte, inciampare negli avverbi di modo, nei tic nervosi, nelle spalle strette o nei vernacolismi per smorzare la tensione, contare dentro di te per misurare e accogliere il silenzio di una prognosi infausta, il macigno dell’incertezza da depositare di fronte a figli, madri, sorelle, compagni, amiche.

Ci sono giorni in cui fare questo lavoro fa veramente schifo perché i tuoi strumenti migliori arrancano, ogni scelta sembra sbagliata, ogni parola misurata male, il rapporto coi colleghi estenuante e il momento di stimbrare un’enorme liberazione ma solo temporanea.

Allora parlatemene di comunicazione, ma me ne parli chi ha i miei problemi, le mie ansie, i miei dubbi sempiterni, chi si fa le domande su come incernierare contenuto e contenitore per agire in ambiente di verità ma fare tutto bene.
Fare tutto bene, che nel mio lavoro non significa sempre far guarire qualcuno o vedere sorrisi, ringraziamenti, soddisfazioni.
Fare tutto bene e andare a casa lasciando fuori dalla porta quel macigno di incertezza, o invitarlo a bere un thè in fondo alla stanza, senza però rompermi le gonadi perché anche io a volte vorrei chiudere tutte queste schede aperte, silenziare questo rumore, dimenticare volti, nomi e facce, non scorrere spasmodicamente le cartelle, essere una di quelle persone che le cose le possono cercare su Google come faccio coi video di hair care, che mi risultano comunque complicatissimi.

A volte fare questo lavoro fa proprio schifo, ma mannaggiammé posso ancora dire che non farei davvero altro.

Verde Acqua

E’ molto raro che i momenti di felicità ispirino la scrittura, le cose mi arrivano addosso e sento il bisogno di buttarle giù in caratteri solitamente quando sono molto arrabbiata o molto triste, quando non addirittura disperata. Ho costruito un blog pieno di livore, dolori, rabbia cieca, inciampi di post-adolescenza e autoreferenzialità.
Spessore, poco. Cose veramente belle nei contenuti e nella forma, ancora meno.

E’ vero che quando sono felice esco, come diceva qualcuno molto più triste di me, ma credo che sia importante concentrarsi sulla felicità e darle l’attenzione che spesso, purtroppo, viene meno. Perché ci hanno addestrate a non essere mai felici finché c’è qualcosa che non va proprio per il verso giusto, elementi di vita non risolti, turbamenti dai quali mai si uscirà, parti di pelle imprecise, le unghie non fatte o la macchia sul top preferito la sera della festa.

Sono appena trascorsi due anni che dire neri sarebbe un eufemismo, li definirei quasi distopici, tremendi, destruenti, impossibili da raccontare, difficili da far comprendere a chi non fa il mio mestiere.
Sono trascorse tutte quelle notti insonni che immaginavo anni fa, ma mai le avrei immaginate così piene di persone che non ci sono più nonostante uno sforzo clinico, intellettuale, fisico, emotivo incommensurabile.
Sono passati i pianti nello spogliatoio, l’incapacità a fare le cose semplici perché ce n’erano troppe e troppo complicate da fare nella stanza accanto, le ore nello scafandro, le power nap sulla poltrona scomoda con la mascherina che sega le orecchie, è passata di fronte la vita senza che nemmeno potessi(mo) rendercene conto.
Il mio mestiere è quanto di più meraviglioso potessi scegliere di fare nella vita e solo di recente me ne sono ricordata, quando mi è stato possibile concentrarmi sui miei obiettivi tecnici e clinici, rivedere i MIEI pazienti ortopedici e i malati intensivi che non hanno una ARDS da SARS-CoV-2. Ho recuperato tutta la fiducia nelle mie abilità manuali che mi sembrava irrimediabilmente perduta, la tremarella è passata e anzi, ho anche un po’ di mani che prudono come quando ero specializzanda. Andare a lavorare volentieri è un grandissimo privilegio, curare le persone è un enorme privilegio, la mia salute e quella dei miei cari è la fortuna più grande, impareggiabile.

E poi ci sono le cose che amo al difuori del complicato mondo rianimatorio, fra tutte c’è la musica dal vivo. La musica mi ha salvata durante la pandemia e la musica dal vivo mi ha riportata alla vita nel giugno scorso, quando i FASK mi hanno fatta piangere a dirotto e ho capito che era tutto finito e che ciò che amo è stare a ballare sotto a un palco. Non le passioni quelle da intellettuale, quelle che “io leggo romanzi russi”, le cose che fanno sprigionare sorrisi incoercibili e sentire il cuore che batte, nel mio caso all’unisono con la cassa dritta o l’arpeggio di intro e l’urlo cacciato perché quella è proprio la MIA canzone. La musica dal vivo è una delle cose di cui non riesco a fare a meno, se voglio essere felice. Danzare libera, nemmeno. E tornerò anche a danzare disciplinata da una maestra in una stanza col parquet e lo specchio, quanto prima.

Il mio cuore sta bene, peraltro. Respiro alla perfezione, scambio elettroni con una certa frequenza vedendo il bello in/di ogni persona che mi si para davanti, non aspetto che le mie aspettative pre-pandemia vengano soddisfatte, forse ne ho di diverse, non lo so ancora. So solo che sorrido sempre.

Che sono schifosamente felice e devo iniziare ad ascoltarla questa felicità, farmene pervadere, non pensare a ciò che è migliorabile ma a tutta l’abbondanza che mi circonda. Ho ripreso a bere moltissimo, fumare troppo, ridere sguaiatamente, sentirmi garosa quando risolvo un’urgenza a lavoro, mangiare come voglio mangiare, fare sport.

E’ una vita caleidoscopica nella sua “meraviglia normale“, come direbbero gli Esterina, è una vita del mio colore preferito.

Una vita a breve vista mare poiché sta arrivando l’estate.
Una vita verde acqua.

[Voglio farla diventare incontenibile, questa Gioia.]

Horcrux.

Esistere.

Esistere per fare del bene a qualcunƏ, per lavorare o per sperimentare sulla propria pelle una folle prova di resistenza e vedere chi ne esce vivƏ, come se fossimo in quel mondo distopico in cui si sacrificano alcunƏ giovani ogni anno per intrattenere un popolo imbambolato su convinzioni fittizie e una politica miope e crudele.

Non mi sto riferendo a Hunger Games ma a Battle Royal – perché sia mai che due anni di Terapia Intensiva Covid mi sottraggano l’allure da Non Scontata Donna di Sinistra, che fra tutti i libri che si potrebbero leggere sceglie sempre quelli meno scontati e presentati dalle book influencer che lavorano veramente bene.

Esisto.

Esisto in rapporto al fatto che possiedo delle capacità cliniche e sono in grado di trattare una grave insufficienza respiratoria con la ventilazione invasiva e tutto il pacchetto terapeutico che si prevede sia in utilizzo nei casi di Covid-19 critica che porta lƏ paziente in Rianimazione. Questa sembra essere la cifra della mia esistenza, il motivo per cui sono chiamata a calpestare questa Terra. Come se fossi un essere non senziente, priva di emozioni o necessità.

Molto si è parlato del disagio che gli operatori e le operatrici sanitari provano a trovarsi continuamente strizzati in uno scafandro molto scomodo, ma non è questo che sta portando via gioia, vita, salute.

E’ che veder morire così tante persone dopo un po’ ti rompe qualcosa dentro. Pochi giorni fa un caro collega ha fatto una battuta citando gli Horcrux in altro contesto, e ho pensato che ogni volta che perdo un paziente è come se un pezzo di me volasse via con lui o lei, e mi sentissi un po’ più vuota e grigia.

Non lo senti lo scafandro, quando la vita lascia il paziente che hai curato per settimane.

Credo che ognuno di noi medici senta qualcosa di diverso e associ la morte a particolari odori e suoni, non so se perché in rapporto a determinati eventi traumatici, o per connessioni che solo un bravo psicanalista potrebbe comprendere.

Io, ad esempio, sento arrivare da fuori come nella scena commovente di un film, la versione di Hallelujah di Jeff Buckley. Questo è il rito che in brevissimo tempo si è radicato in me da quando compilo troppi moduli di decesso e troppo poche lettere di trasferimento. E così, mentre assisto alla vita che se ne va con l’InfermierƏ che sistema lƏ paziente per il suo ultimo viaggio, Jeff Buckley buono arriva come la preghiera laica e silenziosa di cui inconsapevolmente ho bisogno. Quei lutti sono di quelle famiglie, ma anche miei. E’ il mio cimitero personale che si sta riempiendo e questo, evidentemente, è il rituale da svolgere per elaborare tutta la perdita che decido poi di rigurgitare(dagli occhi, con le sigarette, con gli scoppi d’ira) solo in momenti che con quelli non c’entrano nulla, quando sono distante nel tempo e nello spazio, improvvisamente.


  1. uso la schwa, sì, ci provo, sono esausta come tutte le persone con più di 25 anni che si ostinino a capire il linguaggio inclusivo, ma ho deciso che ci provo;
  2. queste cose le scrivevo qualche mese fa, in piena seconda ondata, ho creduto davvero di non poter più essere felice ma fortunatamente non era vero;
  3. ho tanta voglia di scrivere e di vivere.

Pressione.

Di tutte le stanchezze questa è la più violenta. Sempre presente, come una melodia angosciosa di fondo, che non scompare per quanto si riesca a precipitare in sonni profondissimi a qualsiasi ora del giorno e della note per fisica incapacità di fare altrimenti. Come una spina in un dito, tante spine su tutta la pianta di piedi stanchi e non curati nemmeno dalle irriducibili. Penso che ci siano cambiati persino i connotati. Al di là del non truccarsi più (chi lo faceva), dei capelli perennemente schiacciati e legati in basso, proprio come meno mi donano, mi sembra che le persone attorno a me abbiano lentamente mutato faccia. E’ come se adesso percepissi il contorno dei miei occhi e li sentissi perennemente pesanti e urenti, con poca voglia di vedere ancora quel che c’è da vedere.
Questa fatica totalizzante ci ha portati a depauperare ogni riserva funzionale sociale, perché per quanto riguarda le energie professionali, ad ora riusciamo ad attaccare i tubi al posto giusto e non scambiare i pazienti. L’incapacità a far fronte alle dinamiche interpersonali lavorative, tuttavia, è sempre più imponente. Non abbiamo energie per rispondere sempre con positività e educazione. Non riusciamo a tollerare pazientemente quel collega machista e maleducato, non ne abbiamo, lasciateci stare. La forza di ribattere alla collega scorretta, imprecisa, o all’infermiera che ti tratta come se fossi un punching-ball non la si ha. E’ semplice, non abbiamo quasi più nemmeno la forza di arrabbiarci per quello che il Covid sta facendo, quello che CI sta facendo. Questa è la verità.
Siamo appesantiti, aridi e incapaci di scambiare, proprio come quei polmoni che passiamo le giornate a cercare di curare.

Quello che è rimasto.

Non ho mai pensato in maniera sistematica e approfondita a quanto l’essere umano sia inequivocabilmente ostile al cambiamento e all’uscita dalla propria comfort-zone, anche se per prima detesto i mutamenti e gl’imprevisti, per cui si penserebbe che per me sia un processo mentale abbastanza naturale.
E invece…
Ho come la sensazione di star costruendo con grande sforzo la mia tana, mattoncino per mattoncino, da sempre. Dai tempi dell’università almeno, quando si sono avvicendate una serie di situazioni e persone che sono state molto importanti, ma che il tempo ha portato via dal mio magazzino di mattoncini e materiale edile, spesso rivelatosi di qualità infima o potenzialmente pericoloso se utilizzato come base per erigere una struttura che mi desse felicità e sicurezza.

Una pandemia mondiale è una delle poche cose che poteva costringerci, tutti, a fare dei cambiamenti sostanziali. Pratici, quotidiani, logistici, sì… Ma soprattutto una serie di riflessioni etico-morali, sul valore che diamo alle nostre giornate e alle peculiarità della vita che stiamo spendendo su questo pianeta, in questa era, in questo momento.

Ho cambiato abitudini, lavoro, priorità.
Ho capito che tante cose che reputavo importanti, importanti non lo erano.
Probabilmente ho imparato a vivere con meno oggetti, ho buttato via mezza casa, ho guardato video sul minimalismo ed effettuato acquisti mirati e intenzionali (mi odio un po’ per aver appena utilizzato questa parola così trendy attualmente, ma tant’è).
Ma le paranoie?
Le cose che non riuscivo a superare prima?
Gli ostacoli emotivi, le chiusure a riccio, le ferite sociali che pensavo sarebbero cadute nel dimenticatoio della roba non necessaria per campare al meglio?

No, dico, come mai abbiamo imparato a fare la pizza e a vedere documentari sul minimalismo, ma ci facciamo sempre le stesse seghe mentali di prima?
Davvero neanche il rischio concreto della nostra buccia e di quella di tutti i nostri cari ci ha minimamente scalfiti?
Abbiamo ancora tempo per pensare alla nostra inadeguatezza, la nostra immaturità, quel tarlo nel cervello che non se ne va MAI?
Perché questa voglia sfacciata di pizza ghiaccia, quarto rewatch di HIMYM e sofficini nel microonde?

Una parziale giustificazione potrebbe esser data dal fatto che la stabilità economica è lontana anni luce per la mia generazione, che il sessismo impazza e gli Stati Uniti d’America bruciano di rabbia perché essere neri è ancora un grosso problema.
A volte mi sembra che qualcuno si stia divertendo a massacrare i giovani adulti di adesso imponendo una visione del mondo destinata a morire, per la quale dovremo rimetterci noi che siamo già proiettati in un futuro diverso, con canoni del tutto estranei a chi ha comandato finora.

Non lo so, speriamo sia il ciclo che mi fa straparlare.
Del resto sono una donna, sono “hormonal” e emotivamente inaffidabile…

Chi siamo Noi.

Cosa si fa a un malato Covid quando viene ricoverato in Terapia Intensiva (TI)?

La TI è un reparto in cui, per Legge, deve essere presente un Medico/a ogni 4 pazienti e un Infermiere/a ogni 2 pazienti. La cura,

come dice il nome, dev’essere “intensiva”. Questo significa innanzitutto che il monitoraggio dei parametri vitali è continuativo: del paziente osserviamo costantemente l’ossigenazione del sangue, la pressione arteriosa battito-battito, la frequenza cardiaca, la diuresi, una serie di valori ematici forniti in tempo reale da un apparecchio chiamato emogasanalizzatore e molti parametri respiratori forniti dall’ormai famosissimo ventilatore, o respiratore.

L’infermiere/a osserva i parametri e ne comunica l’andamento al Medico/a segnalando eventuali problemi, che poi vengono discussi in team e trattati con farmaci o manovre pratiche spesso invasive.

I pazienti sono intubati, il che significa che il respiro è sostenuto da un tubo inserito dalla bocca fino alla trachea. Viene insufflata aria nei polmoni, che nel paziente affetto non riescono da soli a garantire l’ossigenazione, secondo parametri ben precisi adatti alla persona e alla sua situazione, fotografata di solito all’arrivo in PS con una TAC.

Il tubo non si può tollerare da svegli perché è come un corpo estraneo che si tenderebbe a rigettare, come quando va “di traverso” qualcosa. Per questo “intubato” significa anche sedato, quindi addormentato e incosciente.

Per ventilare meccanicamente in maniera adeguata i polmoni è spesso necessario pronare il paziente, cioè metterlo a faccia in giù, o a “buo pillónzi”, come scritto sui più celebri testi di Anestesia e Rianimazione… Questo ci serve a vincere la forza di gravità e gli addensamenti polmonari determinati dalla malattia, facendo ri-areare le zone normalmente declivi e aprendo gli alveoli polmonari collassati per il processo infiammatorio che si sviluppa nel polmone.

“Girare a faccia in giù“ richiede grande sforzo di tutto il team intensivo poiché la persona è del tutto incosciente e va tutelata da possibili danni da decubito e altre problematiche. Stare in questa posizione può determinare disequilibrio di pressione arteriosa e variazioni dell’ossigenazione, per cui dopo ogni manovra

di pronazione è richiesta una grande attenzione medico-infermieristica per valutare come reagisce il paziente.

Si alterna prono-supinazione ogni 12 ore, più o meno. Attenti: ogni 12 ore buona parte del personale effettua questa manovra ed è impegnato su UN malato. Le TI ne hanno molti di più, in tempi non-Covid solo una piccola parte di essi hanno bisogno di cicli di pronazione e sono fra i più impegnativi.

È importante sottolineare che molte delle cose che si fanno sui pazienti Covid si facevano anche un mese fa, quando molti non sapevano chi fosse il Medico della TI o cosa significasse “intubazione”. Sono manovre con le quali abbiamo dimestichezza, anche se pronare è particolarmente impegnativo come compito.

La risposta alla pronazione si valuta tramite i parametri che compaiono sul ventilatore e l’ecografia polmonare, che si può fare al letto del paziente più volte al giorno e ci dà informazioni su come sta andando. L’immagine più fedele di come sta il polmone ce la darebbe la TAC, ma per portare il paziente a farla bisogna che stia abbastanza bene, perché staccarlo dal ventilatore per attaccarlo agli apparecchi portatili fa perdere tanto di quello che si guadagna con una ventilazione ottimale e costante.

Andare in TAC è un “viaggio”, che oltretutto rischia di contaminare i percorsi compiuti da operatori e pazienti di altri reparti ed espone molte persone.

Nel frattempo è necessario nutrire artificialmente il paziente, lo si fa tramite un sondino che dal naso arriva allo stomaco dove viene infusa una soluzione alimentare.

Sono necessarie inoltre le terapie specifiche antivirali, concordate giorno per giorno con gli Infettivologi/e secondo protocolli attualmente in continua evoluzione. Per erogare endovena queste terapie sono necessari grossi accessi vascolari, il cui posizionamento è competenza del Medico/a della TI e dev’essere effettuato in maniera sterile, comportando procedure di vestizione aggiuntive per l’operatore.

A proposito, la vestizione per chi lavora sui pazienti Covid è quella che si vede sui social e in tv: tute, maschere dedicate, scudo facciale. Per chi lavora fuori dalle TI spesso i presidi sono insufficienti e molti operatori rischiano di non essere adeguatamente protetti.

Donate o procurateli a ospedali, ambulatori di Medicina Generale o Continuità Assistenziale (=Guardia Medica), perché ne abbiamo un gran bisogno.

Tornando in TI: se il paziente ha la febbre la trattiamo, se si sovrappone un’altra infezione perché i polmoni già sono deboli la trattiamo. Se il paziente va in insufficienza renale perché la malattia polmonare provoca un danno a distanza facciamo qualcosa di simile alla dialisi. Queste sono cose che facciamo tutti i giorni sui malati intensivi, tutti, anche non Covid.

Questa routine può durare una-due-tre settimane o anche di più, nel corso delle quali il paziente migliora o peggiora e succedono diverse cose.

Molto dipende dalle condizioni iniziali del polmone, per questo i pazienti con precedente patologia polmonare che si ammalano sono più difficili da trattare. Smettiamo di fumare, và, lo dico anche a me stessa, che sarà il caso.

Stessa cosa vale per i cardiopatici, il cui cuore può mal tollerare la posizione prona e dare problematiche di circolazione tali e quali a quelle che i Rianimatori gestiscono quotidianamente in tutti i pazienti che si trovano in TI per motivi anche diversi dal Covid. Non me ne voglia il movimento bodypositive, di cui sono una fervente sostenitrice, ma ovviamente la pronazione in un paziente obeso è più difficoltosa.

Vi siete mai chiesti come mai alla visita con l’Anestesista Rianimatore prima di un intervento vi chiedono se avete problemi di cuore o polmoni?

“Che gliene frega, tanto deve solo addormentarmi…”

Il motivo è che la ventilazione meccanica e la sedazione provocano dei cambiamenti del fisiologico equilibrio cardiorespiratorio anche in un paziente sano che deve togliersi l’appendice. È cruciale sapere come stanno i vostri polmoni e il vostro cuore, e sí, nel caso ve lo steste chiedendo, se vi siete tolti la tiroide o l’appendice vi hanno intubati.

Specifici fattori di rischio che ci indichino chi andrà bene e chi andrà male non li conosciamo ancora. Per adesso è una serie d’ipotesi, impressioni, valutazioni giorno per giorno, perché questo virus è nuovo, stiamo imparando via via a curarlo.

Noi siamo in rete. I social ci stanno dando una mano, scambiamo informazioni, idee, flow-chart, protocolli, procedure.

Ieri in tre ore di videoconferenza 5000 Anestesisti Rianimatori si sono aggiornati con i Colleghi che trattano i Covid sin dai giorni di Codogno, che sembra tipo cinque anni fa, e hanno appreso la loro esperienza studiando contemporaneamente ciò che dicono i cinesi, che ci son già passati.

Questo è ciò che facciamo, poi ci sarebbero tante cose da dire, la TI è un mondo a sé e particolare, chi ci lavora lo sa.

In TI non esistono angeli, la retorica della Missione e del Santo dovete DAVVERO risparmiarcela.

Siamo professionisti e professioniste con competenze acquisite in anni di studio, esperienza e calci in c**o.

In questi giorni ho visto una collaborazione pazzesca, come se ci stessimo ricordando che apparteniamo a qualcosa di grande e più importante di noi, e niente, è bello.

E voi, sostanzialmente, dovete stare a casa e sostenere come potete il nostro SSN.

Donate mezzi di protezione.

Andate a fare la spesa ai vostri vicini, organizzatevi.

Esigete il lavoro da casa, se potete.

Non fate polemica.

Le cose belle torneranno ma in realtà sono già qui, basta vederle.

Un’ Anestesista Rianimatrice

Tutta la verità, signori, sulla mia generazione.

Il problema non è “non essere risolti” quando hai 31 anni ed è arrivato berciando e sbattendo la porta l’anno 2020. Non credo ci siano persone fra i 25 e i 35 “non risolte“, come spesso sento titolare in maniera altisonante dai nostri chiassosi e ridondanti mezzi di comunicazione.
Noi siamo una generazione strana.
Non è che non siamo “risolti“, è che il mondo attorno a noi è frutto della fisiologica crescita di un sistema sociale che sta collassando su sé stesso.
Sono una categoria professionale che si definisce privilegiata, eppure non so se e quando avrò uno stipendio e non sono in grado di districarmi fra le maglie di una burocrazia inintelligente, spese indubbiamente alte e il cervello di chi vorrebbe soltanto ballettare con una canzone stupida ad alto volume e una birra ghiacciata in mano (“let me go out like a blister in the sun…“).
Penso che siamo cresciuti troppo in fretta e senza nessuno sconto, noialtri, perché sono dieci anni che ci dicono che non abbiamo opportunità, che sarà tutto difficile e che per far fronte a tutto ciò dobbiamo fare a gara a sistemarci, incasellarci, flaggare una serie di caselline che a vederla scritta nero su bianco fa quasi paura: lavoro, figli, una casa tua. Il posto fisso, la laurea, la specializzazione, il dottorato, il master, il postdoc, il contributo regionale per l’affitto e l’uscita dallo stato di famiglia. Uno, a una certa, vorrebbe solo avvolgersi nella vestaglia e avviare l’ennesimo rewatch di Scrubs senza sentirsi inesorabilmente inadatto.
C’è anche da dire che siamo una generazione di merda, noi. Figli degli anni ’90, in cui c’era il Girl Power ma anche la poetica della principessa, del tutto dovuto perché sei donna ma anche tutto negato perché sei donna. Qualcosa non ha funzionato e ci ha tarati tutti pesantemente. Vivere diversamente è molto difficile, chi lo fa spesso lo fa con un malinteso ideale di libertà che lo porta a parassitare gli altri. Cfr l’ultratrentenne ancora a carico dei genitori che deve finire la triennale. Perché ognuno ha i suoi tempi.
[Ma porca miseria, davvero? Ancora?]
Vedo questa dicotomia e mi dico che spesso diventiamo i peggiori giudici di chi ci sta accanto, nonostante siamo tutti nella stessa barca e a parte il giochino dell'”ok boomer” non siamo nemmeno in grado di criticare seriamente, e con una certa autorevolezza, chi ci ha messi in questa situazione.

Al di là dei contratti co.co.co, co.co.pro e co.co.comecazzoarrivoalmeseprossimo, però, penso che ciò che resta come vero determinante sia una profonda carenza di educazione emotiva e una dilagante incapacità a difendersi. Sentimentalmente, intendo, e capire ciò che ci fa bene. Ci hanno detto che esistono sentimenti puri, non scalfibili né modificabili in base ai vari accidenti della vita. L’amore eterno, la felicità perfetta del vissero per sempre blabla… I film che finivano e tu davi per scontato che dopo una decina di scene di vita rocambolesche ti aspettasse qualcosa d’immobile, bello, fisso, sereno.
Non ci siamo proprio. La vita è lunga e la mancanza di riferimenti ti ammazza, ciò a cui volgiamo il nostro sguardo è una serie di libri, film, motti, citazioni, che con la mutevolezza della nostra epoca non si adattano né si adatteranno mai. Non siamo programmati per il “per sempre” ma per il “qui ed ora“, tanto il giorno dopo cambi idea. La rivoluzione intersezionale, zitta zitta, è in atto. Non ci stupiamo più di nulla, e chi lo fa è un povero mentecatto. Le femministe della quinta ondata urlano, sempre più maschi rispondono e piano piano la cultura cresce e si discrimina sempre meno, a parte quelli là, che hanno sopra i 50 anni e ti devono dare lavoro. Non che sia un problema da poco, ma quantomeno coi coetanei ragioniamo quasi liberi da sessismo. Gli under 25, che credo a questo punto si chiamino “Generazione Z”, sembrano appartenere a un altro pianeta, dove disgraziatamente impera la trap e qualche rimasuglio di sottocultura razzista probabilmente appresa da genitori fourty-something che siccome sono poveri credono a Salvini, Marine Le Pen, Trump e altri fascisti di sorta. Loro sì che sanno cosa vogliono, complice l’assolutismo tipico dell’adolescenza, che sui 23 anni comincia a vacillare pericolosamente, pronta a sgretolarsi in mille pezzi alla prima richiesta squallida e sessista su Tinder.

Tutto ciò per dire che, tutto sommato, le persone fra i 25 e i 40 sono persone che usciranno mezze abbacchiate e mezze gasate da questi anni, e veleggeranno verso i 50 senza prospettiva pensionistica soddisfacente, ma con la laconica e tragicomica rassegnazione di chi sa di aver visto un tempo difficile, che sì, tutto sommato c’è sempre il vino a qualche amico, ma poteva anche andare meglio. Vabbè, arrangiamoci, cerchiamo l’amore ma teniamo conto che siamo talmente feriti, portiamo bagagli talmente pesanti, siamo talmente acidi e disillusi che sarà veramente tosta.

Un tempo fatto di niente, ma che stiamo riuscendo a riempire, con un po’ di indie e di sudore della fronte.
La cosa buona che ci hanno dato Scrubs -e forse un po’ anche i classici Disney- è la propensione ineluttabile a crederci, il bisogno catartico di trovare una cosa chiamata felicità.

Anche se sarà difficile.
Anche se bestemmiamo e in chiesa non ci andiamo più.
Anche se abbiamo tanti valori ma non riusciamo a metterli in fila.
[Anche se piangiamo un po’, un po’ troppo spesso.]
Anche se la nona stagione di Scrubs faceva veramente, ma veramente cagare.

Ingiusto fece te contra te giusto.

Caro Ale,

ti scrivo per dirti che la mia fatica è quasi finita. Sono stati mesi in cui ti ho pensato spesso, ti ho visto piccolo piccolo per quel letto così grande, malvagio eppure indifeso, terribile eppure inerme e rassegnato a ciò in cui la tua vita si stava trasformando
E, parlando di mutamenti, hai trasformato un sacco di cose in quelle settimane, anche se non potrai mai saperlo.
La vita dei tuoi cari è cambiata, la immagino ora adorna di una zona nera, ingombrante e terrificante alla quale non possono fare a meno di volgere il loro sguardo ogni giorno, forse chiedendosi se avrebbero potuto far qualcosa per accendervi una piccola luce prima che fosse troppo tardi.
Ma questo tu, Ale, lo sai. La tua mente era così ossessionata dall’impatto che la tua persona aveva su di loro che non c’è bisogno d’interrogarsi su come si sentano adesso.

Quello che non sai, e non saprai mai, è quanto tu abbia trasformato me, che in fondo, ero solo uno dei tuoi medici.

Io sono giovane, faccio errori e imparo anche dalla banalità di un’ausiliaria che gira un malato per lavarlo. Ho una testa dura che non puoi immaginare, le cose mi entrano come treni in corsa, sto male anche se vedo un gattino zoppo, ipersensibile, incazzosa. Una bestiaccia, insomma.
Sono giovane ma sono anche tanto forte, perché spesso le cose non mi scalfiscono nemmeno e faccio quelle battutacce da veterana post sei burn-out, e vado a dritto.
Dopo di te, però, Ale, io non sono riuscita a guardare avanti senza essere impossessata da un’angoscia che non capivo, uno strazio che mi ha accompagnata per mesi.
Ho parlato a tanti di te, nel mio cervello sinistroide odiatore del sopruso ti ho paragonato a Stefano Cucchi, non perché la tua storia si avvicini alla sua, ma in quel ragazzo inerme al quale finalmente stiamo riuscendo a fare giustizia ho visto anche te, che giustizia non l’avrai mai, perché dal tuo mostro non sei riuscito a scappare.

Ho voluto restituirti parte di ciò che di te non avevamo capito, non perché non ci fossimo sforzati, ma perché a volte sono i malati come te quelli più indecifrabili. Quelli che di stoffa dovrebbero averne, perché la gioventù è forte, Ale, come un tempo forte lo eri anche tu. Ne sono sicura.

Ho parlato di fatica perché non ho mai lottato così tanto contro il Power Point annuale per la Scuola di Specializzazione. Ho sempre affrontato slides e letteratura scientifica come se ci fossi nata in mezzo, l’ordine che si crea fra animazioni e frecce mi ha sempre soddisfatta e invogliata ad andare avanti, e la scusa di poter approfondire un circoscritto argomento rendeva facilissima l’opera.
Stavolta il mio compito principale è stato quello di scovare ogni singola terapia che ti abbiamo prescritto, come ti sentivi ogni giorno, se parlavi con noi, se eri arrabbiato, assente, spaventato o ossessionato. Mi sono chiesta se abbiamo fatto tutto il possibile, se i tuoi genitori hanno qualcosa da rimproverarci, se avremmo potuto fare di meglio.

E mi sono chiesta se sarei mai riuscita a lasciarti andare, a superare il fatto che ti abbiamo perso e non poteva essere diversamente.
Da te ho imparato a dare peso a tutto un altro aspetto dei miei malati. Ho potuto allargare i miei orizzonti e migliorare davvero come medico, ho trovato il coraggio d’iniziare un percorso noioso e accidentato ma che era veramente d’uopo.

Adesso sento il bisogno di salutarti un’ultima volta, tu e il tuo volto emaciato che ancora mi spezza il cuore. Resterai in un angolino speciale e un po’ spaventoso, ma smetterai di farmi male come hai smesso di farne a te stesso, purtroppo o per fortuna… Per quanto possa essere grottesco.

Ciao Ale, riposa in pace.

Hai paura del buio?

E’ che io non vorrei più sentirlo, questo distinto senso di angoscia. Questa sensazione che tutto debba sprofondare da un momento all’altro perché non sono né sarò mai adeguata alla situazione. Perché sono troppo brusca e aggressiva, in certe dinamiche non ci so stare e ho anche ricominciato a fumare sebbene mi faccia schifo.
Voglio andare a dormire senza quell’irrequietezza brutta che mi fa pensare di non essere una donna abbastanza forte, indipendente e ragionevole da abortire certi pensieri sul nascere. Mi sembra di non essere mai cambiata e di girare attorno allo stesso timore dell’abbandono attorno al quale giro da anni. Si direbbe che possano entrarci un padre emotivamente stitico e pretenzioso, gli anni che passano troppo velocemente sebbene composti da ore interminabili, o più semplicemente un’indole di merda.
Incline allo psicodramma e alla creazione del medesimo qualora non ci siano elementi tangibili per affogare in un oceano di rabbia e autocommiserazione.
Forse vorrei guardarmi allo specchio e non sentirmi così irrimediabilmente condizionata ed elucubrante, tutto il tempo, ogni minuto.
Magari io certe cose non le voglio, ma non lo so nemmeno io. Magari era tanto che non avevo paura, e adesso ho paura. Che poi è una sensazione subdola quando non la si percepisce nettamente e non si dice con onestà a noi stessi. E’ il non capirsi che frega, poco importa se urli al mondo che sei terrorizzata. Non lo sai davvero finché non ti trovi a pensare che potresti a breve sentirti devastata rimanendo totalmente impotente di fronte agli eventi. Che stavolta sono cazzi perché crollerai.
E tu di crollare non hai nessunissima voglia.
Per cui che fai? Da fuori ti vedono tutti che fai le bizze.
Io non faccio le bizze, non pesto i piedi. O meglio, lo faccio, ma la verità è che ho paura.
Sempre.
Di tutto.
Perché il mio buio potresti diventare tu.

Di egoismi e tristezze.

Ho scelto questo percorso professionale fondamentalmente perché sono una psicopatica e mi piace la meccanica polmonare, ma fra le varie motivazioni più o meno consce c’è anche il fatto che io, con le malattie, ho un rapporto veramente vergognoso.
Ecco, l’ho detto. Non credo questo significhi che ho fatto il medico perché ho paura, anche se il mio prossimo obiettivo è arrivare a non averne mai, di paura.
Sono in grado di gestire il dolore fisico e psicologico in maniera ineccepibile di fronte agli altri, ma ho una maniera quasi malata d’introiettarlo e soffrirlo per conto mio.
Non voglio dire che sono moltoh profondah e mi tengo tutto dentro, perché non è così, anzi. Tendo a comunicare la mia situazione e i conseguenti risvolti emotivi con una certa aggressività, come se avessi bisogno di buttarli lì per far capire come mai sono scura. Ma poi la verità è che no, non ci penso. Vado a lavorare, torno a casa, esco, faccio le mie cose e non rimugino. Mi dedico a certe cose in momenti ben precisi al difuori dei quali non voglio proprio saperne.
Che brutta persona.
Semplicemente perché certe cose, a pensarle, corrodono e basta. Il lavoro che faccio mi porta a vivere dinamiche che non vorrei vivere e a specchiarmi in sofferenze diverse ogni giorno. Ognuno ha il suo modo di soffrire, il mio mi pare il più efficiente.
Un pianto dirotto ogni tanto, testa bassa e pedalare. Perché devo fermarmi anche io insieme a chi sta male, mostrare contrizione, essere triste da mattina a sera e mettere da parte la mia vita?
Se c’è bisogno di me ci sono, sono una di quelle che “faccio faccio faccio”, per il resto tutto è chiuso in un compartimento che non voglio aprire.
Non so se mi faccia bene. Non so se mi prendo in giro. Mi vergogno quasi a dire che credo di no.

Così mi ha detto quella persona che per me è come il paio di vecchi jeans. Che ogni tanto me li rimetto e mi fanno sentire leggera. Quasi ogni giorno scrivo, a volte canto, ballo sempre più spesso. Perché certe tristezze sono inevitabili e ancor più inevitabile è quello che succederà. Non dipende da noi o da quanto siamo bravi, dal livello al quale scegliamo di dilaniarci o votarci a cause perse.
Da quanto ci ammaliamo, per gli altri.
Dipende da quanto di integro resta di noi, da quante energie investiamo nella nostra pars construens, da quanto dedichiamo alla parte luminosa della nostra vita. I tunnel di negatività vanno arredati e bisogna uscire spesso a prender aria.

Giustificazioni? Non lo so.

Per il resto… Va.
Va strano e che ci capisco poco, ma quella parte luminosa brilla come non mai, e la voglio tutta. Da impazzire.

“Sto ricominciando a fumare. Mi dico che no, che non è vero, che smetto quando voglio, che una sigaretta ogni tanto (nel corso della giornata) non è poi questo dramma. Mi dico che non posso mica rinunciare a qualsiasi cosa, perché quelle come me non sono persone sane, non lo sono state mai. Non siamo buone e non siamo salutiste. E’ una postura, ce lo imponiamo, fingiamo di poter agire sulla nostra indole ma no, sono tutte stronzate, se nasci tondo non muori mica magro.” (cit. Memorie di una Vagina)