E’ molto raro che i momenti di felicità ispirino la scrittura, le cose mi arrivano addosso e sento il bisogno di buttarle giù in caratteri solitamente quando sono molto arrabbiata o molto triste, quando non addirittura disperata. Ho costruito un blog pieno di livore, dolori, rabbia cieca, inciampi di post-adolescenza e autoreferenzialità.
Spessore, poco. Cose veramente belle nei contenuti e nella forma, ancora meno.
E’ vero che quando sono felice esco, come diceva qualcuno molto più triste di me, ma credo che sia importante concentrarsi sulla felicità e darle l’attenzione che spesso, purtroppo, viene meno. Perché ci hanno addestrate a non essere mai felici finché c’è qualcosa che non va proprio per il verso giusto, elementi di vita non risolti, turbamenti dai quali mai si uscirà, parti di pelle imprecise, le unghie non fatte o la macchia sul top preferito la sera della festa.
Sono appena trascorsi due anni che dire neri sarebbe un eufemismo, li definirei quasi distopici, tremendi, destruenti, impossibili da raccontare, difficili da far comprendere a chi non fa il mio mestiere.
Sono trascorse tutte quelle notti insonni che immaginavo anni fa, ma mai le avrei immaginate così piene di persone che non ci sono più nonostante uno sforzo clinico, intellettuale, fisico, emotivo incommensurabile.
Sono passati i pianti nello spogliatoio, l’incapacità a fare le cose semplici perché ce n’erano troppe e troppo complicate da fare nella stanza accanto, le ore nello scafandro, le power nap sulla poltrona scomoda con la mascherina che sega le orecchie, è passata di fronte la vita senza che nemmeno potessi(mo) rendercene conto.
Il mio mestiere è quanto di più meraviglioso potessi scegliere di fare nella vita e solo di recente me ne sono ricordata, quando mi è stato possibile concentrarmi sui miei obiettivi tecnici e clinici, rivedere i MIEI pazienti ortopedici e i malati intensivi che non hanno una ARDS da SARS-CoV-2. Ho recuperato tutta la fiducia nelle mie abilità manuali che mi sembrava irrimediabilmente perduta, la tremarella è passata e anzi, ho anche un po’ di mani che prudono come quando ero specializzanda. Andare a lavorare volentieri è un grandissimo privilegio, curare le persone è un enorme privilegio, la mia salute e quella dei miei cari è la fortuna più grande, impareggiabile.
E poi ci sono le cose che amo al difuori del complicato mondo rianimatorio, fra tutte c’è la musica dal vivo. La musica mi ha salvata durante la pandemia e la musica dal vivo mi ha riportata alla vita nel giugno scorso, quando i FASK mi hanno fatta piangere a dirotto e ho capito che era tutto finito e che ciò che amo è stare a ballare sotto a un palco. Non le passioni quelle da intellettuale, quelle che “io leggo romanzi russi”, le cose che fanno sprigionare sorrisi incoercibili e sentire il cuore che batte, nel mio caso all’unisono con la cassa dritta o l’arpeggio di intro e l’urlo cacciato perché quella è proprio la MIA canzone. La musica dal vivo è una delle cose di cui non riesco a fare a meno, se voglio essere felice. Danzare libera, nemmeno. E tornerò anche a danzare disciplinata da una maestra in una stanza col parquet e lo specchio, quanto prima.
Il mio cuore sta bene, peraltro. Respiro alla perfezione, scambio elettroni con una certa frequenza vedendo il bello in/di ogni persona che mi si para davanti, non aspetto che le mie aspettative pre-pandemia vengano soddisfatte, forse ne ho di diverse, non lo so ancora. So solo che sorrido sempre.
Che sono schifosamente felice e devo iniziare ad ascoltarla questa felicità, farmene pervadere, non pensare a ciò che è migliorabile ma a tutta l’abbondanza che mi circonda. Ho ripreso a bere moltissimo, fumare troppo, ridere sguaiatamente, sentirmi garosa quando risolvo un’urgenza a lavoro, mangiare come voglio mangiare, fare sport.
E’ una vita caleidoscopica nella sua “meraviglia normale“, come direbbero gli Esterina, è una vita del mio colore preferito.
Una vita a breve vista mare poiché sta arrivando l’estate.
Una vita verde acqua.
[Voglio farla diventare incontenibile, questa Gioia.]